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Quello di Parma è considerato tra i cibi più gustosi in assoluto al mondo, come l’annuale sondaggio del canale TV americano CNN puntualmente certifica, ma anche altre tipologie prodotte in Italia vantano un successo planetario, consolidatosi nel tempo. Stiamo parlando di quella particolare preparazione della coscia di maiale che selezionata, salata, speziata e stagionata prende il nome di prosciutto crudo, ovvero il più famoso prodotto dell’arte salumiera italiana e tra i più consumati nella sua patria di origine come all’estero.
E se vi chiedete le ragioni di tanta notorietà le risposta è semplicissima: il prosciutto crudo italiano è unico e inimitabile, a partire già dal nome. Solo in italiano il prosciutto merita un termine specifico che descrive non il taglio ma il cuore del processo di preparazione, ovvero l’asciugatura della carne. Come inimitabili sono le sue molteplici virtù: gusto inconfondibile, versatilità degli impieghi, ricchezza di abbinamenti con vino e altre pietanze, spontanea tendenza ad assecondare la convivialità. Dietro c’è la raffinata e antica tradizione della lavorazione del maiale, tipica di alcuni territori della Penisola.
Ma procediamo con ordine. Il prosciutto è un rito che è fatto anche di pazienza e attese, quando lo si stagiona, così come quando lo si racconta.
Una parte dei segreti del prosciutto crudo risiede proprio nelle sue origini millenarie e nella sua storia, lungo la quale si sono affinati i saperi legati alla selezione degli animali, alla lavorazione e alla stagionatura della parte più pregiata del maiale, quella che va dallo zampetto all’anca.
Tecniche di conservazione del maiale sono attestate anche in epoche precedenti alla civiltà italica, ma è solo con gli Etruschi padani, stanziati tra Parma e Mantova, che si inaugura la tradizione del prosciutto crudo che i Romani faranno propria e diffonderanno nell’Impero. La base della preparazione è la coscia di maiale che viene prosciugata con il sale (da qui il nome prosciutto, dal latino suctus o exsuctus, che significa appunto prosciugare) e lasciata stagionare. La spalla già allora non viene considerata prosciutto, tanto che i Romani di età classica usano due termini diversi: perna per il prosciutto vero e proprio, petaso per la spalla cotta.
Il termine prosciutto inizia a diffondersi con i Longobardi, che introducono tecniche nuove di stagionatura e conservazione della carne. È l’epoca nella quale la produzione di quel salume sempre più apprezzato si consolida e si diffonde, facendo emergere i territori più vocati quali il Parmense e il Friuli, per i mastri salumieri, il Mantovano, per gli allevamenti di maiale e la qualità delle carni.
Nel tardo Medioevo, le arti e i mestieri legati alla lavorazione del maiale - regolati dalla Corporazioni - si specializzano sempre più fino alla definitiva affermazione Rinascimentale, quando il prosciutto troneggia sulle sontuose tavole dei principi ed entra nei libri di gastronomia. La produzione resta ancora quasi di tipo familiare e la distribuzione dei prosciutti confinata ai territori d’origine dai quali esce più in virtù di relazioni dinastiche che di strategie commerciali. I primi veri ambasciatori nel mondo di quell’antica specialità italiana sono gli artisti, i nobili e i magnati impegnati nei Gran Tour d’Italia, tanto di moda tra il XVIII e XIX secolo, ovvero i turisti ante litteram, che oggi come allora amano portarsi a casa un pezzetto d’Italia.
Sarà solo a partire dall’Ottocento che, per soddisfare l’ampliamento dei consumi e dei mercati, i laboratori artigianali si evolvono in veri e propri stabilimenti e nascono le prime salumerie dedicate allo smercio dei salumi. La produzione di massa però non cambia l’arte salumiera italiana che conserva i principi della tradizione e il rispetto delle numerose specialità locali.
La ricchezza delle tradizioni gastronomiche dell’Italia anche nel caso del prosciutto crudo si è trasferita nel tempo in una molteplicità di prodotti locali, che differiscono per gusto, aromi e forme. Solo tra DOP e IGP si contano in Italia undici varietà di prosciutto crudo, concentrate nel Centro-Nord della Penisola, dalla Valle d’Aosta alla Toscana.
Su tutte, ne spiccano due. Il successo maggiore, in patria e all’estero, è legato, infatti, ai prosciutti crudi prodotti tra le colline di due province, quelle di Parma e di Udine, patrie del Parma e del San Daniele, entrambi a Denominazione di Origine Controllata. In comune le due specialità hanno la dolcezza e la delicata intensità del gusto e degli aromi che li rende adatti sia al consumo da soli, sia in preparazioni più elaborate. Parma e San Daniele spesso condividono anche un altro segreto: i maiali allevati nel Nord Italia, dove la carne suina non solo è prodotta in grande quantità, ma è di primissima qualità, grazie all’eccellenza sia delle tecniche di allevamento sia delle procedure di macellazione. Un triangolo perfetto che Levoni ha riprodotto nella dislocazione dei suoi stabilimenti che assicurano il controllo della filiera, a garanzia della qualità: sede centrale e macellazione della carne nei dintorni della città dei Gonzaga (rispettivamente a Castellucchio e Marcaria), prosciuttifici a Lesignano de Bagni (Parma) e San Daniele del Friuli.
Ingredienti di questi due tipologie di prosciutti crudi sono la carne accuratamente selezionata da allevamenti 100% italiani (da alcune regioni specifiche indicate nei disciplinari), il sale e le condizioni ambientali dei territori di origine. L’altitudine, che nel caso del Parma non supera mai i 900 metri e nel San Daniele si attesta mediamente a 300, gioca un ruolo nel microclima locale e quindi nell'essiccazione della carne, marcando una delle differenze più importanti con i prosciutti di montagna, spesso stranieri, meno delicati. I due prosciutti d’Italia più famosi differiscono, però, notevolmente nella forma: tondeggiante e senza piedino quello emiliano, con lo zampino e di aspetto più schiacciato il friulano.
Se le differenze d’aspetto sono sicuramente indizio di sapori e aromi differenti, quel che non cambia è la virtù del prosciutto italiano di essere versatile, che è uno dei motivi del suo successo planetario. Il prosciutto crudo sta bene in purezza come in compagnia, soprattutto del pane e del vino, ma non solo: dalla frutta al pesce non c’è tipologia di alimento che incontrandolo non tragga beneficio in termini di gusto e carattere.
Partiamo dal vino. Ovviamente non esistono regole ferree e il gusto personale ha il suo peso, ma alcune linee guida si possono delineare. La prima delle quali è farsi guidare dal territorio di provenienza del prosciutto. Il Parma, per sua natura delicatamente intenso e dolce, può trovare nei vini emiliani un compagno ideale: è quasi naturale pensare al Lambrusco, che ci sta ottimamente, ma anche una Malvasia emiliana fa la sua figura, così come si abbinano alla perfezione altri bianchi freschi e le bollicine del prosecco. Per il San Daniele, che ha sentori più aromatici, val la pena scegliere tra le molte varietà di rossi e bianchi friulani: l’importante è che non siano troppo prepotenti e strutturati, ma rispettosi dell’aroma del prosciutto.
E i cibi? Il pane, ovvio, meglio se poco salato e ricco di mollica, è il primo accompagnamento. Ma il prosciutto offre infinite varietà di connubio, sia per la preparazione di pietanze crude sia di quelle cotte. Così via libera alle frutta – melone e fichi innanzitutto, come da tradizione, ma anche mela, pesca e avocado, basta che non sia frutta aspra - e alla verdura, meglio quella dolce e non troppo saporita. Ottime le patate, da evitare invece i sottaceti. Tra gli abbinamenti con cibi crudi spiccano anche quelli con i formaggi, meglio se delicati e non troppo stagionati, come robiola, brie o mozzarella, ma anche il provolone dolce può non stonare affatto.
Circa le pietanze cotte, si apre un mondo, difficile da esplorare in poche righe. Diciamo che il prosciutto crudo accompagna splendidamente le minestre di verdura, i funghi, le uova, i legumi – innanzitutto piselli e fagioli, ma anche fave e lenticchie. Sta bene nei fritti – frittatine di pasta, supplì di riso, crocché - e come arricchimento dei condimenti per le paste. Con il pesce è meno frequente: Pellegrino Artusi proponeva il crudo con le triglie, ma anche la sogliola e la spigola possono convolare a felici nozze con un crudo delicato.
Un parola sulla senape, forse l’unica delle salse condimento che si possono associare al crudo: una leggerissima velatura sul Parma, ci può andare. Ma attenzione: mano leggerissima e fette di prosciutto magari un pochino più spesse.
Lo spessore delle fette gioca un ruolo importantissimo nella degustazione del prosciutto crudo. E se produrlo è un‘arte, tagliarlo rispettandone le caratteristiche ed esaltandone aromi e gusto è un’arte a sua volta. In linea generale è bene tenere presente che il prosciutto presenta cinque ossi in tutto, che vengono eliminati uno dopo l’altro via via che si procede con il taglio e che esistono tre parti che richiedono trattamenti diversi: il cuore, il gambo e il sott’osso.
E allora: fette o tocchi? E le fette sottili o spesse? La tradizione italiana, a differenza di quella spagnola, è decisamente a favore della fetta e non dei singoli pezzettini. Mentre i tocchetti consentono di gustare le singole parti del prosciutto e magari apprezzarne le differenze, con riscontri più o meno piacevoli, più o meno salati, la fetta intera, meglio se lunga, permette di assaporare il prosciutto nella sua interezza in una sinfonia di sapori. Per questo, meglio che la fetta sia molto sottile, operazione per la quale si preferisce l’uso dell’affettatrice al coltello, soprattutto per il cuore, mentre il sott’osso meglio si presta a un taglio manuale. Anche qui Italia e Spagna hanno approcci differenti: gli iberici, infatti, tagliano per lo più a mano tutto il prosciutto, indipendentemente dal pezzo.
Due gli errori da evitare: eliminare tutta la cotenna, preziosa ai fini della conservazione del prosciutto ancora non tagliato; escludere il grasso che conferisce non solo sapore, ma anche morbidezza. Attenzione: per scongiurare sapori rancidi, bisogna sempre che la parte sottoposta al taglio sia pulita e che resti tale anche dopo.
Il taglio libera gli aromi della carne accumulatisi nella stagionatura: per questo è meglio consumare le fette appena tagliate. Per la conservazione del prosciutto affettato il frigorifero è il luogo ideale, ma una temperatura non inferiore ai 2°. Quello intero preferisce ambienti secchi e asciutti, con il termometro tra 15 e 20°.
Ed è intero con l’osso che spesso il prosciutto crudo varca i confini d’Italia, conquistandosi un posto d’onore prima che nei sondaggi, sulle tavole di tutto il mondo.
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