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Prosciutto: come nasce lo storico salume

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C’è chi lo chiama jambon, chi ham e chi schinken, cioè solo e semplicemente “gamba”. E poi c’è chi, che sia crudo o cotto, rosa intenso o rosa chiaro, lo chiama in tutt’altro modo ovvero prosciutto. E se volete saperne di più siete nel posto giusto. Qui si racconta, infatti, delle origini, dei segreti e delle ricette del salume più famoso al mondo, il prosciutto italiano appunto, in una lunga cavalcata che parte dall’antica Roma, passa per un salumificio degli anni ‘20 del Novecento alle porte di Milano e finisce in una trattoria di New York. 

Ma sia subito chiaro: il prosciutto italiano, come tutta la numerosa e gloriosa genia dei salumi della Penisola, non è solo carne suina, in questo caso la più pregiata - per esattezza la coscia-  selezionata, salata, speziata e stagionata. Per gli italiani è molto di più. È un insieme di gesti, riti, tradizioni, esperimenti, ricordi personali e familiari, che conferiscono ad ogni tocco di prosciutto sostanza e valori che vanno ben oltre quelli nutritivi, già di per sé nobili e preziosi. Dietro ogni fetta ci sono storie e persone, il cui nome spesso si è perso, ma la cui esistenza ha lasciato traccia in quegli aromi e in quei sapori che ancora ci accompagnano in un tripudio di raffinata semplicità, tanto che l’associazione “panino al prosciutto” e “vino” sono sinonimo di felice frugalità. 

Nomen omen, nel nome del destino

Che il prosciutto, cotto o crudo che sia, per la tradizione italiana non sia un semplice gambo di maiale, ma una preparazione gastronomica, frutto di un’attenta elaborazione e di saperi antichi, è data dal termine stesso. La parola italiana prosciutto indica infatti un processo di produzione, meglio dire una ricetta, il cui scopo è conservare la parte più nobile, saporita e nutritivamente equilibrata del maiale, la coscia appunto. Il termine deriva dal tardo latino e qualunque sia l’etimologia che gli si voglia attribuire, si riferisce in ogni caso alla trasformazione e conservazione della carne. “Pro” sta a indicare che qualcosa è avvenuto prima o favore di qualcos’altro, “sciutto” - che provenga dai participi latini exsuctus (spremere, asciugare) o suctus (succhiato) - indica invece l’asciugatura della carne. 

In sintesi, prosciutto sta per prosciugato, che è appunto l’esito di un procedimento. In tutte le altre principali lingue non è così. Lo spagnolo jamon e la parola francese che le fa da modello, jambon, indicano una parte, la coscia appunto, così come l’inglese ham, evoluzione dell’antico germanico hamma, e il tedesco shinken che significano gambo e stinco. E se le parole hanno un senso, basta questo a creare una differenza tra il prosciutto italiano, con la sua tradizione, e tutti gli altri. Una differenza che si palesa nel prodotto finale: l’Italia ha il vantaggio di poter contare su zone, come il parmense e il Friuli, dove i prosciutti crudi assumono un sapore inconfondibile e dolce, ben diverso da quello dei più rustici e salati prodotti francesi e spagnoli.  

E che la parola prosciutto sia latina non è un caso. Sebbene i processi di essicazione e salatura delle cosce di maiale siano testimoniati anche in epoche precedenti, è al tempo dei Romani che il prosciutto inizia ad assumere quelle caratteristiche peculiari che ancora oggi conosciamo. Ma fu in epoca longobarda, come anche nel caso del salame, che quelle peculiarità e il nome tardo latino si consolidarono. I Romani come al solito già la sapevano lunga e distinguevano le preparazioni fatte con la coscia, ovvero il prosciutto propriamente detto, chiamate perna, e quelle fatte con la spalla di maiale, chiamate petaso. Una distinzione che val la pena tenere a mente ancora oggi: prosciutto è solo quel taglio del maiale che va dall’anca alla zampa, il cuore della coscia, dal quale si ricavano le varietà del crudo e del cotto. Le preparazioni a base di spalla non sono prosciutto, ma solo la meno nobile spalla cotta.

Storia di un salume

I Romani ereditarono la passione per il prosciutto e i salumi in genere dagli Etruschi. In particolare, erano apprezzati i prosciutti prodotti nella Pianura Padana, tra Parma e Mantova. Qui non solo erano abbondanti i maiali selvatici, ma si erano anche sviluppate tecniche di allevamento molto evolute per l’epoca. Oltre alla cottura con varie spezie, la salatura era il metodo principe di conservazione della coscia di maiale, ma per aumentarne la sicurezza e la conservabilità si procedeva spesso anche all’affumicatura. Per questo il poeta Orazio cantava la “perna” chiamandola “fumosa”, quella stessa che imbandiva la tavola di Trimalcione descritta nel Satyricon di Petronio e di tutti i sontuosi banchetti dell’epoca. Il prosciutto, infatti, era già allora considerato una prelibatezza ed era diffuso in molte province romane, da quelle galliche e germaniche, fino alla Grecia. 

Ma, così come per i salami, è con i Longobardi che avviene il cambio di paradigma nella conservazione e preparazione della specialità chiamata sempre più comunemente prosciutto, in sostituzione dell’antico termine perna.  Quei germani, che più di altri incideranno nella cultura dei latini e greci italici - tanto da evolversi tutti insieme in quelli che già prima del Mille si chiamavano Italiani - diffondono nuove procedure di stagionatura delle cosce di maiale e della carne in generale. La moneta in quei secoli scarseggia, ma il maiale no, tanto che diventa merce di scambio sotto forma di pancette e appunto prosciutti, riserve di valori nutritivi e di sapore duraturi nel tempo, quindi di ricchezza. Gli stessi boschi non si misurano più in acri, ma in maiali: non importa l’estensione, ma il nutrimento assicurato al prezioso animale.

Prosciutto: crudo o cotto?

Proprio in quell’epoca si diffonde la produzione di prosciutto e si delineano con maggiore chiarezza le zone più vocate. Tra queste, innanzitutto quel territorio fertile e generoso che si adagia sulle due rive del Po, tra le odierne Emilia e Lombardia, e l’attuale Friuli, patrie del Parma e del San Daniele, dove Levoni ha due stabilimenti dedicati all’arte del prosciutto crudo. Le diversità territoriali danno vita alle prime marcate differenziazioni delle tipicità regionali, a loro volta legate alla tipologia di maiali allevati, alla loro alimentazione, oltre che alle ricette utilizzate per la preparazione. 

La rapida evoluzione della lavorazione della carne e delle arti ad essa collegate durante il Medioevo vede protagoniste le Corporazione e le Associazioni di arti e mestieri, che assumono un ruolo via via crescente, mantenuto intatto fino all’Ottocento, nel regolamentare i procedimenti di lavorazione e la qualità delle carni. I macellai o beccai si dividono dai salumieri o lardaroli che si specializzano nella stagionatura e speziatura delle carni, codificando i procedimenti di lavorazione e la qualità delle materie prime. Soprattutto, anche grazie ai protocolli delle Corporazioni, prosciutto crudo e prosciutto cotto si separano in maniera definitiva, dando vita a due storie parallele, entrambe di successo. 

In comune i due salumi hanno il taglio di carne originario, che deve essere la coscia del maiale, e, parzialmente, la salatura. Nel caso del prosciutto cotto, però, si stabilisce che le cosce vadano disossate, prima di essere trattate con una salamoia a base di sale e spezie. Solo alla fine del processo, arriva il passaggio in stampi per la pressatura che prepara alla cottura, che generalmente avviene delicatamente a vapore. 

Essenziale è la massaggiatura, ovvero quella fase nella quale la carne viene delicatamente manipolata in modo che i vari ingredienti possano penetrare in maniera uniforme i tessuti. Salatura, cottura e massaggiatura, sono tecniche che nel tempo si sono raffinate sempre più e che hanno accompagnato la lenta, ma decisa evoluzione del prosciutto cotto dalla semplice coscia di suino lessata dei romani al prodotto raffinato che conosciamo oggi. 

Il prosciutto crudo, invece, è lavorato a secco con sale marino ed è soggetto a un processo di fermentazione e stagionatura, che è il momento nel quale perde umidità e diventa appunto prosciutto, ovvero prosciugato.

Le differenti lavorazioni tra le due tipologie di prosciutto comportano forme, colori, sapori e aromi caratteristici che nel tempo si sono arricchiti di nuove preparazioni e tecniche, lasciando inalterato l’essenziale: colore rosa vivo o rosa chiaro, sapore morbido e dolce con o senza retrogusto salato, aroma spiccato o più delicato, che si tratti rispettivamente di crudo o di cotto. A non cambiare di molto tra le due versioni del prosciutto sono le caratteristiche nutrizionali: un po’ meno calorico il cotto, 215 calorie contro 235 per etto, anche se leggermente più grasso, contrariamente a quanto si possa pensare. 

La filiera di produzione

Alla fine, come per tutti i salumi, la differenza che davvero conta è quella tra un prosciutto buono e tutti gli altri. Nel determinare questa semplice ma imprescindibile distinzione gioca un ruolo fondamentale la filiera di produzione, che nel tempo e con l’affermarsi dei processi industriali e del mercato di massa, ha assunto un’importanza crescente ai fini della difesa della qualità. 

Siamo ormai nell’età Contemporanea, le antiche Corporazioni sono state spazzate quasi tutte via dai Sanculotti, come tutto ciò che attiene all’Antico regime, e la Rivoluzione industriale avanza, imponendo in tutte le filiere standard e tempi di produzione inimmaginabili fino a pochi decenni prima. Nascono i primi laboratori alimentari e si diffondono le prime botteghe specializzate in salumi, le charcuterie, alla francese, le salumerie o norcinerie, in italiano. Ma non è la fine delle tradizioni, almeno per le eccellenze dell’arte salumiera italiana, che sa conservare ed evolvere quanto ereditato in oltre due millenni.  

È l’impegno di personaggi chiave della storia recente della tradizione italiana, come Ezechiello Levoni, che negli Anni ‘20  del secolo scorso, nel pieno fiorire di Milano quale capitale industriale d’Italia, trasferisce il suo giovane salumificio dalla metropoli nel mantovano, ovvero in uno dei territori dove dal tempo degli Etruschi, la cultura del maiale si è meglio tramandata e raffinata. 

È l’applicazione intuitiva e pratica di quella che successivamente sarà teorizzata come controllo della filiera. Per un buon prosciutto, come per un buon salame, occorre innanzitutto dell’ottima carne che dipende a sua volta dalle razze, dall’alimentazione e dalla cura che si ha per i suini. Macellazione compresa, che Levoni esegue in proprio nello stabilimento di Marcaria: anch’essa prevede sapienza, cura e amore. 

La trasformazione e lavorazione delle cosce di maiale è solo il passo successivo e finale, ma anche in questa fase occorrono ingredienti di qualità, come spezie ed erbe, che è bene controllare e lavorare direttamente, perché nulla di una ricetta sia lasciato al caso. Tutto conta e ha un ruolo determinante ai fini della riuscita di una preparazione, tanto le materie prime e gli ingredienti, quanto i processi di produzione, che possono coniugare saperi antichi ed esigenze contemporanee

La chiave è nel fattore umano, nei mastri salumieri, alla cui esperienza è sempre affidata l’ultima parola. Solo un naso allenato sa quando un prosciutto crudo è maturo; solo una mano esperta sa come massaggiare una coscia destinata a diventare prosciutto cotto. Sensi acuti e allertati che sanno placarsi nella pazienza dell’attesa: alla fine del processo ci sono i tempi della stagionatura o della cottura, che vanno assecondati e accompagnati.    

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Ricette con il prosciutto

La velocità dei tempi moderni è stata però anche un alleato dell’arte salumiera italiana. Gli emigranti prima – del Nord come del Sud della Penisola – i turisti poi, i canali commerciali infine, diffondono nel mondo i prosciutti italiani. E lo conquistano, a tocchi, a fette o più riccamente sotto forma di ricette. Il prosciutto, infatti, nei secoli ha solleticato la fantasia di appassionati dei cibi gourmet e cuochi, fin dal tempo dei romani, anche grazie alle caratteristiche tipiche del prosciutto italiano, che soprattutto nella varietà friulana e parmense, è delicato e dolce e ben si presta agli usi in cucina. 

Le ricette a base di prosciutto trovano spazio già nell’autore latino Apicio, che lo proponeva con crema d’orzo, ma è dal Rinascimento che si assiste alla proliferazione di preparazioni e proposte.  A partire dal “Libro de arte Coquinaria”, un volume della fine del ‘400,  di Maestro Martino, ben presto imitato da altri come Cristoforo di Messisbugo (Banchetti, composizione di vivande et apparecchio generale) e Bartolomeo Scappi nel secolo successivo. Nell’Ottocento Pellegrino Artusi, che modernizza e internazionalizza le ricette tipiche italiane, propone il prosciutto come elemento principe non solo di tortellini e cotolette alla Bolognese, ma anche di piatti a base di piselli e triglie.  

Ma all’arricchimento del ricettario, il contributo maggiore è arrivato, come sempre nella tradizione italiana, dal sapere e dalle intuizioni tramandate nelle cucine domestiche le quali, oltre che come antipasto, hanno usato il prosciutto per accompagnare la frutta, come fichi o melone, per farcire preparazioni a base di lievitati – pane, panini, focacce, gnocchi fritti, tigelle, piadine, pizze – , per condire tagliatelle, per impreziosire funghi, insaporire minestre, in preparazioni al forno e fritture, da solo o con contorni appropriati. In una catena che non si è mai interrotta e continua ad alimentarsi di tradizioni e innovazioni.

E New York City? Eccola: in una trattoria alla moda del Queen, un cartello promette: “beans and pasta with prosciutto cotena”, dove solo i fagioli e le congiunzioni subiscono l’onta della traduzione in inglese (e pazienza se la cotenna perde un “n”). Poiché chiamare il prosciutto “ham” non darebbe l’idea di quanta strada, quante storie, persone, cultura ed esperienze ci siano dietro quel sontuoso e semplice piatto, con il quale i nostri trisavoli del ‘600 seppero sposare le novità del Nuovo Mondo (fagioli e pomodori) con gli antichissimi sapori d’Italia.

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